DA ROMA ALLA TERZA ROMA
XXXVII SEMINARIO INTERNAZIONALE DI STUDI
STORICI
Campidoglio, 21-22 aprile 2016
Direttore di «Arthos.
Pagine
di testimonianza tradizionale»
Genova
L’ASYLUM ROMULI. DA SCHIAVI A CITTADINI DI ROMA*
SOMMARIO: 1. Roma, comunità
“aperta” sin dalle origini. – 2. Migrazioni e presenze mitiche. – 3. Eterogeneità
sociale dei compagni di Romolo e apertura dell’Asylum. – 4. La
funzione del dio dell’Asylum e il “rito di passaggio”
a Giove Feretrio. – 5. Vediove e la Gens Iulia. – 6. Chi è, dunque,
Vediove? – 7. Epilogo. L’Asylum del tempio del Divo
Giulio.
– Bibliografia.
Molti anni fa (1962), in uno scritto giovanile dedicato al più antico concetto giuridico
d’Italia, Pierangelo Catalano, nel citare un noto passo di Plinio che
definiva l’Italia «terra omnium
terrarum alumna éadem et parens» («figlia e madre di
tutte le terre») (Nat. Hist.
3.39), ha potuto parlare «non dunque [di] una chiusa realtà
etnica, ma [di] un concetto giuridico che si alimenta di una idea politica tesa
all’universale»[1].
Ciò, evidentemente come effetto di lunga durata di un
magistero che, nell’esperienza romana, si sviluppa lungo l’arco di
molti secoli e pone le sue basi sin dalle origini.
In verità, tradizioni, leggende, la ricostruzione stessa
della più antica storia romana ci rappresentano Roma come una compagine
aperta dal punto di vista etnico, vale a dire non chiusa all’interno di
un unico popolo, i Latini, da cui pure i Romani traevano origine.
Di Romolo e del suo Asylum
diremo tra breve: intanto osserveremo che Tito Tazio e Numa Pompilio erano
sabini, così come sabine erano le madri di Tullo Ostilio e Anco Marzio;
Tarquinio Prisco era figlio di un greco di Corinto e di una etrusca; Servio
Tullio, poi, per molti era uno straniero di condizione servile.
Mentre i Greci e soprattutto Atene insistevano sulla propria
autoctonia come valore positivo, i Romani non hanno mai fatto mistero del
carattere aperto della loro comunità.
Durante la Repubblica l’importante Gens Claudia menava vanto della sua origine straniera (sabina) e,
in seguito, l’Imperatore Claudio, che a quella stessa gens apparteneva, ebbe modo di
pronunciare in Senato un memorabile discorso ad esaltazione di questa apertura[2].
Di più: in una lettera di Filippo V di Macedonia agli
abitanti di Larissa (212 a. C.) si additano ad esempio i Romani che concedevano
facilmente la cittadinanza: e non solo agli stranieri, ma persino agli schiavi[3].
Un riscontro concreto a tutto ciò è dato, non solo
dalla documentazione archeologica, ma dagli stessi Fasti Consolari dove, tra la fine del VI e la metà del V
secolo a. C. troviamo consoli il cui gentilizio denota un’origine
straniera (Etruschi, Sabini, Volsci, Aurunci).
Il fenomeno continua nel tempo, ma si può dire che questa
capacità d’integrare altri e di assorbirne talvolta istituzioni e
culti certamente risalga all’età regia e rappresenti uno dei
segreti del successo di Roma, in cui tutto poteva ricomporsi nell’ambito
della cittadinanza.
Assieme a questa, la
libertà è il tratto più caratteristico della compagine
romana.
Se è vero che essa era privilegio del cittadino e si
stagliava su uno sfondo di rapporti servili, sulla massa degli schiavi e dei
semiliberi, in Roma poteva essere ottenuta più facilmente che in Grecia,
perché il padrone dello schiavo, nel manumetterlo, ne faceva contemporaneamente
un uomo libero e un cittadino, i cui discendenti, nello spazio di poche
generazioni, non solo risultavano perfettamente integrati nel resto della
popolazione, ma potevano assurgere alle più alte cariche politiche.
Afferma Cicerone nelle Filippiche
(6.7.19): «Le altre nazioni possono tollerare la servitù, la
libertà è propria del popolo romano»[4].
Certamente l’Italia – e soprattutto il Lazio –
fu luogo di passaggio, in epoca remota o “mitico – storica”,
di infinite popolazioni, che Dionigi di Alicarnasso puntigliosamente enumera:
Aborigeni, Pelasgi, Arcadi, Peloponnesiaci al seguito di Ercole, Troiani,
… Lo stesso Dionigi (1.89.1-2) si stupisce per il fatto che Roma non si
fosse imbarbarita «nonostante abbia accolto nel suo seno Opici, Marsi,
Sanniti, Tirreni, Bruzi e parecchie decine di migliaia di Umbri, Liguri, Iberi,
Celti e molti altri popoli (…) tutti differenti per lingua e
costumi».
Gli dèi stessi scelgono questa terra come luogo di
rifugio.
Saturno
giunge nel Lazio esule, straniero, “latitante”: anzi, il Lazio
stesso, secondo una sacra etimologia, avrebbe derivato il suo nome dal latére
(“nascondersi”) del dio[5].
Accolto dal buon re Giano, Saturno con lui divide il regno e fonda una mitica e
preistorica comunità sul colle che, prima di chiamarsi Capitolium, era detto mons Saturnius: Saturnia, la cui reale
consistenza è stata dimostrata dagli scavi archeologici[6].
Ora,
è interessante constatare che proprio sul mons Saturnius Romolo – riferisce
Livio (1.8.5-6) – allo scopo di aumentare la popolazione della nuova
città da lui fondata, aprì un luogo di rifugio nell’area
tra le due cime del colle Capitolino (l’Arx e il Capitolium vero
e proprio), dove potessero trovare riparo gli esiliati dai luoghi vicini,
fossero essi liberi o schiavi fuggiaschi: un Asylum in un avvallamento inter
duos lucos, considerato talvolta esso stesso un bosco, area – dice
Livio – ai suoi tempi recintata e chiusa.
Secondo Plutarco (Rom.
9.2-3), già prima dell’istituzione dell’Asylum (che per lui precede la creazione del pomerio ed è
frutto dell’iniziativa comune di Romolo e Remo), la turba al seguito dei
gemelli era composta da «molti servi e molti ribelli» con i quali
«gli abitanti di Alba non ritenevano giusto mescolarsi, né
accogliere come cittadini». Quindi «istituirono un luogo sacro come
asilo per i ribelli e lo intitolarono al dio Asilo: vi accoglievano tutti, non restituendo
lo schiavo ai padroni, né il plebeo ai creditori, né
l’omicida ai magistrati; affermavano anzi che per un responso
dell’oracolo di Delfi, potevano garantire il diritto di asilo, in modo
tale che la città si riempì presto di gente».
Il termine Asylum (che
non appare nella letteratura latina prima della metà del I sec. a.C., ma
non può essere considerato come la semplice traslitterazione di un
termine greco) designa un luogo la cui sacralità si giustifica sulla
base dell’accoglienza di qualsiasi persona. Rinvia ad una pratica in uso
nel mondo greco, ma secondo un’ottica prettamente romana[7].
Livio e Plutarco sottolineano la composizione eterodossa dei
primi coloni romani, servi e ribelli, e lo fanno probabilmente per
fedeltà a fonti più antiche che ancora non avevano nobilitato la leggenda
originaria: si tratta forse del riferimento ad un’istituzione
giuridico-religiosa assai risalente nel tempo.
Dionigi di Alicarnasso, invece, parla (2.15) dell’Asylum come di un «santuario per
supplici, che, se avessero voluto, sarebbero stati resi partecipi della
cittadinanza» e sottolinea come, tra i compagni di Romolo vi fossero
nobili Albani di origine troiana, da cui sarebbero discese le 50 famiglie di
cui parlava Varrone nella perduta opera De
familiis Troianis: un particolare che, peraltro, potrebbe avere un certo
rilievo nel contesto che seguirà.
L’Asylum e il
suo recinto erano consacrati ad una divinità ignota a Dionigi e a
Plutarco (che parla di un generico ‘dio Asilo’), ma che la maggior
parte dei commentatori, antichi e moderni, identifica con Vediove (o Veiove),
soprattutto per il fatto che proprio lì, inter duos lucos, in epoca storica (192 a. C.) fosse stato dedicato
a lui un tempio, il cui dies natalis
cadeva alle none di Marzo[8]. Vi
si accedeva attraverso la Porta Pandana,
un tempo chiamata Saturnia in quanto
che, situata lungo il clivo capitolino, non distava molto dal tempio di
Saturno. Ora, appare significativo che Pandana
significhi “sempre aperta”: dunque accessibile da tutti coloro che
avessero voluto rifugiarsi nell’Asylum[9].
Servio Danielino (ad Aen.
2.761), citando Calpurnio Pisone, parla di un deus Lycoris, che potremmo intendere come deus luci (cioè un non meglio identificato Genius loci), oppure riferire
all’appellativo greco Lychoréus,
applicato ad Apollo: un dato, questo, che potrebbe essere confermato dalla
scoperta, negli anni ’40, della statua cultuale di Vediove – di cui
parla Ovidio[10] – sotto le apparenti sembianze di
un giovane Apollo: ma la statua (oggi in
situ, cioè nei sotterranei dei Musei Capitolini) è mutila e
non tutta leggibile[11].
Già il Wissowa (alla pagina 199 ss. del suo Religion und KultusderRömer, 1912)
aveva intuito come uno dei caratteri peculiari di Vediove concernesse il campo
della protezione e dell’espiazione: in effetti, non per caso un
altro suo tempio si trovava sull’isola Tiberina, in compagnia di quello
di Esculapio (il dio greco della medicina), il cui dies natalis cadeva (per entrambi) il primo di Gennaio: giorno in
cui i calendari – oltre, naturalmente, a Giano – ricordano appunto
Vediove, Esculapio e Coronide, la “vergine – cornacchia”
madre dello stesso Esculapio[12].
La compagnia di Giano, dio degli initia e dei “passaggi”, è significativa, dal
momento che questo “passaggio” pare riferirsi
all’integrazione dello straniero e/o dello schiavo liberato nella
cittadinanza romana. Si potrebbe dire che Romolo, con l’Asylum, risanasse quegli stranieri che
erano caduti nel campo d’azione di Vediove trasferendoli, come cittadini,
nel campo d’azione del sommo Giove.
L’isola e l’Asylum,
quindi, entrambi come “ospedali” o luoghi di transito: da
“banditi” o “clandestini”[13]
vigilati da Vediove (il parvum Iovem
di Paul. Fest., 119 L.), a cittadini restituiti alla luce folgorante del Giove
celeste.
Considerato poi lo stretto legame topografico fra l’Asylum e il santuario di Giove Feretrio,
il cui culto civico sempre Romolo aveva istituito, appare evidente la relazione
tra i due siti: dall’Asylum di
Vediove era necessario “passare” sino all’altare di Feretrio,
dove un giuramento rituale per Iovem
lapidem avrebbe integrato nella nascente comunità romana quella
«massa eterogenea di individui indistinti tra schiavi e liberi», di
cui parla Livio (1.8.5). Dunque, Vediove e Iuppiters
embrano agire su un piano teologico e rituale affatto differente, per quanto
complementare: il primo purifica gli ospiti dell’Asylum da ogni impurità connessa alla loro condizione di
emarginati e/o stranieri (nell’isola Tiberina, di “malati” o
feriti di guerra), mentre il secondo, testimone del loro giuramento di
fedeltà, ne sancisce[14] e
tutela l’ingresso nella comunità.
La funzione di questo Iuppiter
Iuvenis (Ovidio) a Roma è la medesima esercitata a Terracina da
Feronia col suo piccolo Iuppiter Anxur
(definito imberbis da Servio, ad Aen. 7.799) nella cerimonia di
liberazione degli schiavi, allorché ci si sedeva su un sedile lapideum come servi e ci si rialzava liberi.
Laddove a Terracina e, in epoca storica, in Roma stessa, il passaggio
di stato veniva ulteriormente ritualizzato con la recita di un’apposita
formula, il taglio simbolico dei capelli e la ricezione del pilleus libertatis[15].
Giove è forse la sola figura divina di Roma di cui si
possa dire con certezza che non possedesse nessun culto rivoltogli dalle gentes in quanto tali, perché del
tutto appartenente alla sfera pubblica. Oltre che estraneo alle gentes, lo era anche nei confronti dei
“non liberi” e di coloro che ancora non fossero cives. Diverso è il caso di
Vediove, come si è già visto. Questo “Giove giovane”
non è peraltro una forza oscura delle profondità terrestri o di
immaginarie entrate nel mondo sotterraneo, come molti studiosi (soprattutto
moderni) hanno ritenuto di dedurre dalle fonti. Un legame con la sfera ctonia,
tuttavia, esiste, in quanto il dio ha a che fare con la pietas nei confronti dei morti: in suo nome si sacrifica ritu humano[16].
Ora, gli Iulii sono
celebrati nella poesia romana come discendenti di Giove in quanto progenitore
del re troiano. Virgilio parla di Assara
ciproles demissaeque ab Iove gentis nomina (Georg. 3.35).
Proprio a Lavinio si venerava il capostipite Enea, sotto il nome
di Iuppiter Indiges (cioè
“Giove antenato”), presso una tomba monumentale, un heroon tornato alla luce una quarantina
di anni fa[17]. Se dunque una gens romana avesse voluto inserire Giove
nel suo culto gentilizio, questa sarebbe stata certamente la Gens Iulia. Ma, come una fortunata
scoperta (di cui diremo più sotto) ha permesso di dimostrare, tale gens non venerava nell’ambito
romano Giove, bensì Vediove.
La tradizione è unanime nell’attribuire agli Iulii una origine albana. Livio (1.30.2)
li vuole giunti a Roma dopo la distruzione di Alba ai tempi di Tullo Ostilio.
Tuttavia è anche ben nota la figura di Proculus Iulius, il quale sarebbe stato
testimone dell’apoteosi di Romolo (Liv. 1.16.5): in tal caso avrebbe
valore quanto affermato da Dionigi (e da Varrone) sulle 50 famiglie di origine
troiana partite con Romolo alla volta di Roma.
Fatto sta che la tradizione è confermata dai legami della
gens con Boville, i cui abitanti si
presentavano come discendenti degli antichi Albani (Albani Longani Bovillenses) e dove si erano trasferiti i culti di
Alba dopo la distruzione.
Sul lastricato dell’antica città fu scoperto un
sacrario della Gens Iulia che recava
la seguente epigrafe: Vediove i patre i
gente i les Iulei. Ved[iovei] [Iu]l[e]i [a]ara leege Albana dicata. Non si
deve pensare a sacra gentilicia, ma
ad un sacerdozio pubblico ereditato dagli Iulii
sulla base di una legge albana mantenuta in vita dalla Res Publica Romana. Cosa che dimostra come la gens a cui appartenne Gaio Giulio Cesare, oltre che stirpe di Re
(come orgogliosamente affermò lo stesso Cesare nell’orazione funebre
in onore di sua zia) fosse soprattutto «una antica famiglia
sacerdotale», come bene intuì il Syme[18].
Si noti ancora che una statuetta in bronzo dello stesso Vediove,
che reca frecce in una mano, è stata rinvenuta poco distante dall’heroon di Iuppiter Indiges di cui si è detto. Era a corredo di uno dei
famosi “XIII altari” (per la precisione: il primo o il secondo)
scavati in contemporanea all’heroon
laviniate scoperto nel secolo scorso[19]:
ulteriore elemento che rafforza il nostro discorso.
Prima di cercare di capire chi rappresenti veramente Vediove,
vediamo di comprendere meglio perché, parlando delle sembianze giovanili
delle sue statue di culto, sia stato fatto un raffronto con Apollo.
Già si è notato (vedi n. 11) come un importante
esponente della Gens Iulia avesse
dedicato nel lontano 431 a. C. un tempio ad Apollo medico: prima attestazione
del culto apollineo a Roma.
A
parte la relazione con Esculapio, che abbiamo già incontrato su quella
stessa isola Tiberina dove dimora anche Vediove, è da notarsi che ad
Apollo medico erano consacrati tutti coloro che nascevano da parto cesareo:
dunque, anche il primo dei Giulii di cognome Cesare venuto alla luce in questo
modo. Donde l’inserimento anche di questo dio tra i culti della gens: seppure questi riacquisterà,
in epoca augustea, lo specifico aspetto dell’Apollo greco. Tuttavia, fra
i due, Vediove è il più antico …
Il culto gentilizio ereditario di Boville fa da sfondo ad una
etimologia dell’anonima Origo
Gentis Romanae (15.5): «ammirando il grande coraggio di Ascanio, i
Latini non solo lo ritennero discendente da Giove, ma lo chiamarono dapprima Iolum, abbreviando e trasformando un
poco il nome, quindi Iulum: da lui
discese la famiglia Giulia, come scrivono Cesare nel libro secondo e Catone
nelle Origini».
Premesso che il “Cesare” di questo brano è
riferito a Lucio Giulio Cesare, console nel 64 a.C. ed autore dei Pontificalia, il Richard ha notato in
questa etimologia un passaggio mancante prima di Iulum: quel Io(vi)lus che
ha le caratteristiche di un diminutivo in grado di farci comprendere come da Iovis si sia giunti a Iolus[20].
Se Ascanio – Iulo è un “piccolo Giove”, è
dunque assimilabile a Vediove (il parvum
Iovem di Paul. Fest., 519 L.). Per giunta, le statue cultuali di
quest’ultimo recano in mano delle frecce ed Ascanio – Iulo,
nell’Eneide, è descritto
come un abile arciere (v. Aen. 7.496
– 499 e 9.630 – 634). Pare dunque che Iulo, questo ‘piccolo
Giove’ sia il divus parens,
l’antenato divinizzato di tradizione albana che Romolo e i suoi compagni
di Alba Longa (fra cui degli Iulii?)
pongono a custode dell’Asylumin
virtù delle sue speciali caratteristiche.
Pochi lo hanno notato, ma la vicenda dell’antico Asylum Romuli ha un singolare epilogo
che, alla luce di quanto sopra esposto, a me pare emblematico, considerato il
rapporto tra la Gens Iulia e il
diritto d’asilo.
Tacito (Ann. 3.60-63)
ricorda come Gaio Giulio Cesare dictator
avesse concesso il diritto d’asilo al santuario di Venere di Afrodisia,
diritto ribadito, dopo la sua morte, da Ottaviano e Antonio nella loro
qualità di triumviri.
Del resto Appiano (Bell.
Civ. 2.44.602) ricorda come esistessero decreti, in virtù dei quali
nessuno poteva essere giustiziato se avesse trovato rifugio presso una statua
del divo Giulio. La lex Rufrena aveva
infatti introdotto Cesare nell’ambito dei culti pubblici e nel sistema
religioso del politeismo romano. Da ultimo, Cassio Dione (47.19.2-3) riferisce
come, ancora nel 42 a.C., i tribuni avessero votato la costruzione di un
tempio, nel Foro, al divo Giulio, a cui i triumviri concessero lo ius asyli.
«A differenza di molte città greche – scrive
il Fraschetti, commentando Cassio Dione[21]
– a Roma si trattava anche per un tempio di un privilegio di eccezione,
tanto da poter essere confrontato solo con precedenti analoghi di epoca
romulea». Cassio Dione parla di heroon,
che, a parere del Coarelli[22] non
può essere altro che l’altare antistante al tempio, anteriore a
quest’ultimo. Ma questo asilo – continua Dione – mantenne le
sue prerogative per poco, perché «dopo che si verificarono
assembramenti popolari, il luogo conservò il diritto di asylia solo di nome, non di fatto,
poiché fu sbarrato in modo tale, che nessuno poté più
penetrarvi». Tale chiusura deve identificarsi – precisa il
Coarelli, che ha esaminato i resti del fabbricato – «con il muro
che chiuse l’esedra, rendendo inaccessibile l’altare (….)
operazione, certamente posteriore alla costruzione del tempio (che ebbe luogo
nel 29 a.C.) e probabilmente nel corso dei lavori di ristrutturazione del Foro,
successivi agli incendi del 14 e del 19 a.C.».
Insomma, i tempi erano cambiati.
P. Arata, Osservazioni sulla topografia sacra
dell’“Arx capitolina”, in Mélanges de l’école française de Rome -
Antiquité 122/1 (2010), 117 ss.
D. Van Berchem, Trois cas d’asylie archaïque,
in Museum Helveticum 17 (1960), 21
ss.
L. Deroy, Sur la valeur et l’origine du
préfixe latin ‘VĒ-‘, in L’antichité classique 52 (1983), 5 ss.
A. Fraschetti, Romolo il fondatore, Roma-Bari 2002.
A. L. Frothingham, Vediovis, the
volcanic god, in The American journal
of philology 38/4 (1917), 370 ss.
C. Koch, Giove romano, Roma 1986.
F. Marcattili, Schiavitù e integrazione tra
“asylum” e “Insula Tiberina”. Su Veiove, Esculapio,
Iuppiter, in Rendiconti Mor.
Accademia dei Lincei XXV (2014), 201 ss.
A.
Mastrocinque, Romolo, Este 1993.
G. Piccaluga, L’anti Juppiter, in Studi e Materiali di storia delle religioni
(1963), 229 ss.
J. Prim, Vie religieuse au VI siècle av. J.-
C. et topographie urbaine, in Mélanges
de l’école française de Rome - Antiquité 126/1
(2014).
D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, Milano
1988.
G. Stara -
Tedde, I boschi sacri
dell’antica Roma, in Bull.
della Comm. Arch. Comunale, fasc. 2, 1905 [Roma], 189 ss. [ rist. Roma
2014].
[Un evento culturale, in quanto ampiamente
pubblicizzato in precedenza, rende impossibile qualsiasi valutazione veramente
anonima dei contributi ivi presentati. Per questa ragione, gli scritti di
questa parte della sezione “Memorie” sono stati valutati “in
chiaro” dal Comitato promotore del XXXVI Seminario internazionale di
studi storici “Da Roma alla Terza Roma” (organizzato dall’Unità di ricerca
‘Giorgio La Pira’ del CNR
e dall’Istituto di Storia Russa dell’Accademia delle Scienze di Russia, con
la collaborazione della ‘Sapienza’
Università di Roma, sul tema: MIGRAZIONI, IMPERO E CITTÀ DA
ROMA A COSTANTINOPOLI A MOSCA) e dalla direzione di Diritto @ Storia]
*
Già pubblicato in Diritto @ Storia
N.14- 2016: http://www.dirittoestoria.it/14/memorie/Del-Ponte-Asylum-Romuli-da-schiavi-a-cittadini.htm
[1] P. CATALANO, Appunti sopra il più antico concetto
giuridico d’Italia, “Accademia delle Scienze”, Torino
1962, 30-31.
[2]
Cfr. Oratio Claudiana, in C.I.L. XIII, 1668 = I.L.S., 212. Vedi
Cic., De off. 1.11. 35. Per quanto
qui affermo cfr. anche C. AMPOLO, La
nascita della città, in: AA.VV., Storia
di Roma, I ( Roma in Italia ),
Torino 1988, 172 ss.
[3]
Cfr. I.G. IX, 2, 517.
[4]
Per queste ed altre considerazioni, cfr. F.
DE MARTINO, Il modello della
città-stato, in AA.VV., Storia
di Roma, IV (Caratteri e morfologie
), Torino 1989, 453 ss.
[5]
Su Saturno e il suo latére,
cfr. A. BRELICH, Tre variazioni romane
sul tema delle origini, 2a ed., Roma 1976, 90 e passim. L’A. rammenta lo stato di libertà concessa
agli schiavi durante i Saturnalia del
17 Dicembre e come i piedi della sua statua cultuale fossero legati da compedes (vincoli caratteristici degli schiavi) e sciolti proprio in occasione della sua festa:
elementi, tutti, da tenere in considerazione per il discorso che stiamo facendo.
Sul significato personale e non territoriale di Latium, cfr. P. CATALANO, Linee
del sistema sovrannazionale romano, Torino 1965, 135 ss.
[6]
Cfr. PATRIZIA FORTINI, in AA.VV., Roma
– Romolo, Remo e la fondazione della città, Roma 2000, 326:
«Tra il XIV secolo a.C. e l’VIII secolo a.C. i dati archeologici
restituiti dalle aree di Sant’Omobono e del Tabularium documentano effettivamente la presenza di un villaggio
sul colle».
[7] Si veda utilmente
lo scritto di LUCIA Fanizza, Asilo, diritto d’asilo. Romolo, Cesare, Tiberio, in Index. Quaderni camerti di studi romanistici.
International
Survey of Roman Law 40 (Napoli 2012), 605 ss.
[8] Cfr. Ov., Fasti,
3.429 ss. «Le
None di Marzo hanno una sola celebrazione: si crede che in questo giorno sia
stato consacrato, davanti a due boschi sacri, il tempio di Vediove. Romolo,
dopo aver circondato il lucus con un
alto muro in pietra, disse: ‘chiunque tu sia, se qui ti rifugi, sarai al
sicuro’. Da quale umile origine discendono i Romani ...».
[9] Gli scavi
archeologici attestano come le primitive mura di difesa del Campidoglio
risalgano all’età romulea. Prima di Romolo avrebbe abitato quel
sito il popolo dei Latinienses. Utile
il saggio di F. MERCATTILI,
“Quod semper pateret”. La Porta
Pandana, la Porta Carmentalis e l’ “Asylum” in Revue archeologique, 57 (2014/1), 71 ss.
[10] Cfr. Ov., Fasti 3. 436-437: «Ascolta chi
è questo dio e perché si chiama così. E’ Giove
adolescente (Iuvenis ): guarda il suo
volto giovanile …».
[11] Potrebbe riferirsi
ad Apollo Medico o, comunque, ad un Apollo ctonio affine all’etrusco Suri
od al sabino Soranus, non a caso
legato a Feronia ( si veda più avanti ) e alla Gens Valeria, la gens
“guaritrice”. Si vedano i miei due saggi: Feronia, dea italica e mediterranea, la Gens Valeria e il monte Soratte,
in “Arthos”, n. s., 21 (2012), 56-57, e L’arcano potere risanatorio che dirozza la pietra ( Valeria
Luperca ) in: ID., “Favete
linguis!” Saggi sulle fondamenta del sacro in Roma antica, Genova
2010, 19-23. D’altra parte, si ricordi che il culto di Apollo Medico fu
introdotto nel 431 a.C. da un esponente della Gens Iulia (Cn. Giulio Mentone), la quale – come meglio
vedremo – era strettamente legata a Vediove.
[12] Il padre fu il
gigante Valens (Cic.,Nat. Deor. 3.56) o forse lo stesso
Apollo (cfr. R. DEL PONTE, Feronia, dea,
cit. 57 s.
[13]Clandestinus
deriva da clam (“di
nascosto”) e (per alcuni) dies
o (per altri) intus/intestinus:
insomma, “colui che vive nascosto alla luce del giorno”. Vediove
è il suo dio, in quanto può introdurlo alla luce di Giove.
[14] Sul valore
originario della sanzione divina, cfr. R.
DEL PONTE, Santità delle
mura e sanzione divina, in: ID.,
La città degli dèi. La
tradizione di Roma e la sua continuità, Genova 2003, 93 ss.
[15] Su Feronia si veda
anche, da ultimo: M. di Fazio, Feronia. Spazi e tempi di una dea dell’Italia centrale antica, Roma
2013.
[16]
L’espressione, lungi dal fare riferimento a presunti sacrifici umani,
significa “con rito per uomini”, cioè offerto ad uomini
defunti quale sacrifico espiatorio. Cfr. Paul. Fest. 91 L.,: humanum sacrificium dicebant, quod mortui
causa fiebat. Non è neppure escluso un riferimento all’humus, cioè alla terra della
sepoltura. Cfr. F. Cavazza, Note a le Notti attiche di Aulo Gellio, libri IV – V,
Bologna 1987, 200 s.
[17] Cfr. AA.VV., Enea nel Lazio. Archeologia e mito, Roma 1981, e M.
Torelli, Lavinio e Roma, Roma
1984. Non entro qui nel merito delle discussioni sulla destinazione iniziale
dell’heroon di Lavinio, in
particolare delle conclusioni a cui è giunto A. Carandini, Il fuoco
sacro di Roma. Vesta, Romolo, Enea, Bari 2015, 115 ss., da cui mi dissocio.
Su Iuppiter Indiges (e i dii Indigetes ) cfr. R. DEL Ponte, La religione dei Romani, Milano 1992, 73 ss.
[18] R.
Syme, The roman
revolution, Oxford 1939, 68. Appare significativa la fabula narrata da Ovidio nei Fasti (3.661 – 674) della vecchia
Anna Perenna di Boville (celebrata nei calendari alle Idi di Marzo –
giorno dell’uccisione di Gaio Giulio Cesare), la quale soccorre con le
sue focacce i plebei affamati dopo la secessione che li ha arroccati sul Monte
Sacro. Qui Anna Perenna di Boville stende la sua protezione sui reietti del
Monte Sacro, così come Vediove (presente nei calendari alle None di
Marzo) fa, in un certo qual modo, coi fuggitivi riuniti nell’Asylum.
[19] Cfr. F. Castagnoli, Statuetta bronzea di Vediove, in AA.VV. Enea nel Lazio, cit., 182.
[20]Cfr. Cl. RICHARD, Sur un triple étiologie du nom ʺIulusʺ,
in Revue des études latines,
LXI (1983), 108 ss. Si veda anche: G.V. e R.
SANNAZZARI, Origini: il
‘Flamen Dialis’, in Arthos,
XVIII – XIX, 33-34 (1989-1990), 157 ss.
[21] Cfr. A. Fraschetti, Roma e il principe , Roma – Bari 2005, 64 ss. Per la Lex Rufrena, vedi C.I.L. I, 626.
[22] Si veda F.
COARELLI, Il Foro romano, II (Periodo repubblicano e augusteo), 2a
ed., Roma 1992, 257-259.